Questa finestra davanti la scrivania non è un affaccio sui grandi sconvolgimenti in atto nel mondo. Semplicemente, dà su un cortile interno al condominio. Gli altri appartamenti qui di fronte sono tutti spenti, così non c'è assolutamente nulla da vedere. Se non uno spicchio di cielo, debolmente illuminato dalla luna piena alle spalle del nostro edificio. Questa fetta di spazio spicca per contrasto con l'oscurità dei palazzi.
È attraverso questo stesso cielo che corrono i caccia e i bombardieri degli Stati volenterosi della missione Odissey dawn, in questo preciso istante. Il nostro Paese si unisce, apre un altro fronte. Siamo più in guerra di prima, se mi passate l'espressione. Io non credo affatto nella guerra come mezzo di persuasione nelle relazioni internazionali e negli affari interni. Mi sono però trovato, nei giorni passati a chiedere, al televisore acceso sulle immagini della rivolta, "fate qualcosa! facciamo qualcosa!".
È con un po' di pudore quindi che scrivo queste righe, non sapendo cosa di tutti questi accadimenti debba farmi gioire, cosa debba io biasimare. L'unica certezza è che tanto ci sia da temere, nei prossimi giorni e nei prossimi anni. Qua si scrive la storia, e noi siamo pessimi scrittori, anche un po' ignoranti.
Ma fortunatamente il pudore non è un sentimento che si addice a chi deve prendere decisioni per il Paese. Meno male, altrimenti sarebbe un fiorire di gote rosse e di sguardi bassi: l'uomo che oggi indichiamo come feroce dittatore e al quale abbiamo dichiarato guerra, è lo stesso che nove mesi fa piantò la sua tenda a Villa Pamphili, accumulò ore di ritardo ad ogni appuntamento ufficiale e sette mesi fa, per festeggiare l'anniversario del Trattato di Amicizia Italia-Libia (tra le altre cose, 5 miliardi in 25 anni per il nostro passato coloniale), tenne lezione sul Corano a qualche centinaio di ragazze italiane, retribuite per l'occasione.
Ma fortunatamente il pudore non è un sentimento che si addice a chi deve prendere decisioni per il Paese. Meno male, altrimenti sarebbe un fiorire di gote rosse e di sguardi bassi: l'uomo che oggi indichiamo come feroce dittatore e al quale abbiamo dichiarato guerra, è lo stesso che nove mesi fa piantò la sua tenda a Villa Pamphili, accumulò ore di ritardo ad ogni appuntamento ufficiale e sette mesi fa, per festeggiare l'anniversario del Trattato di Amicizia Italia-Libia (tra le altre cose, 5 miliardi in 25 anni per il nostro passato coloniale), tenne lezione sul Corano a qualche centinaio di ragazze italiane, retribuite per l'occasione.
Parentesi. Ci preoccupiamo che i crocifissi rimangano nelle aule, mentre giù nel cortile ci affanniamo ché un sanguinario dittatore, anche un po' sbruffone, intrattenga un pubblico (anche da noi) pagato. Chiusa.
Dati i pregressi, potremmo dire, almeno un po' di pudore sarebbe d'obbligo. E invece nulla, siamo scivolati come un panetto di burro su un piano inclinato, incautamente e sempre più velocemente verso la situazione attuale. Prima un "vedremo", poi un "non disturbiamo", alla fine "all'armi!". Sarà che io, se dovessi mentire e contraddirmi ogni 2x3, non riuscirei ad avere quella faccia di bronzo che affatto invidio ai nostri governanti.
E mentre un gruppo di volontari a Fukushima sta andando verso morte certa pur di salvare la vita a migliaia di altri uomini e donne al mondo, io guardo questo spicchio di cielo. Sono assalito dai pensieri, dai ricordi, da questo feroce sentimento d'impotenza davanti alle vicende del mondo che ci travolgono tutti, indistintamente. Almeno in questo, finalmente uguali.
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