"A chi appartiene la povertà?" Nessuno risponde. "Perché se viene venduta" continua Martens con sguardo impassibile, "ci deve essere un capo". La povertà è una risorsa. Una risorsa da cui tutti guadagnano, dai fotogiornalisti, che vengono pagati a prezzo d'oro per le loro foto, all'Unicef, che espone il suo simbolo su ogni tela di plastica che ricopre le capanne malandate in cui uomini, donne e bambini vivono.
La povertà è una risorsa. Mi vengono in mente quei fotografi che Martens filma con la sua telecamera non professionale, dall'obiettivo sporco e rigato. I fotografi che con naturalezza catturano immagini strazianti, fotografie che sarebbe meglio non scattare, non con quella insistenza irrispettosa che elimina la poca dignità umana rimasta nei soggetti ridotti a pelle e ossa. Scheletri viventi che riescono ancora a rantolare, lo sguardo vuoto e fisso. Ma tanto nelle fotografie non si sente il rumore delle loro voci.
Quanto prende un fotografo occidentale per una foto del genere? 50 dollari, risponde un fotoreporter italiano che lavora per Agence France Presse. Quanto prende un fotografo africano? 75 centesimi. Ma c'è un altro problema. I congolesi intervistati da Martens fotografano matrimoni, feste, compleanni. Non morte. Allora sono foto che non valgono niente. I media occidentali vogliono i disastri, le tragedie. Vogliono le foto dei bambini che muoiono di fame, delle donne violentate e dei militari morti. E' questa l'Africa che ci piace.
Mi viene in mente il mega-poster appeso fuori dalla FAO, dove il solito bambino scheletrico che piange guarda le macchine che scorrono davanti al Circo Massimo. "1 billion people live in chronic hunger and I'm mad as hell!" Per adesso è questa l'immagine che ci viene imposta. Come negli anni 80 ci veniva detto di vedere i mujaheddin come "freedom fighters" e oggi ci viene detto di vederli come terroristi. Eppure, oggi come negli anni 80, combattono per la libertà. Allora contro il nemico sovietico, oggi contro lo zio Sam.
Verrà mai svelata l'altra faccia della medaglia? Verranno raccontate anche altre verità? E' necessario lottare per un mondo mediatico più aperto, diversificato, positivo e obiettivo. Noi cominciamo con un semplice blog sperso nell'abisso del web. E chi vuole, ci segua!
E' proprio vero, Ale. Ed è anche vero che quella della rappresentazione della miseria, ma delle sciagure umane in genere, è sempre stata una delle attività più lucrose per il business mediatico. Ci vuole molto cinismo per concentrarsi e continuare a fotografare un bambino che muore, ma qui sta il dilemma. La pietà e la salutare vergogna direbbero di non farlo, di smettere, ma è anche vero che documentare le tragedie può avere un valore: se sappiamo degli orrori dei lager nazisti è anche perchè fotografi e cineasti dallo stomaco forte ripresero scene di montagne di cadaveri, e di semi-cadaveri che giacevano nel fango (il grande regista John Ford fu tra quelli, e fu chiamato proprio per documentare, affinchè nessuno potesse poi negare); se possiamo ispirarci alla santità di Madre Teresa, è anche perchè lei accolse sempre i fotografi nei suoi lazzaretti, e li incoraggiò e li lodò per il lavoro che facevano; e se sappiamo meno degli orrori dei campi di sterminio cambogiani e dei Gulag sovietici è anche perchè, in questo caso, la documentazione è molto scarsa. In fondo, chi documenta con l'immagine, non fa un lavoro meno efficace di chi documenta con la penna.
RispondiEliminaMa come in tutte le attività umane, anche in uno sporco lavoro come questo, quello che conta è l'intenzione, è quello che si ha nel cuore.
PJ
Vero PJ..credo infatti che non sia il fotoreporter a dover esser giudicato,ma la speculazione di organizzazioni e aziende che ne ricavano d'immagine pubblicizzando la miseria. Quando la foto viene utilizzata per denunciare (come un articolo, ad esempio), diviene fondamentale come verifica dei fatti, come testimonianza di una realtà. Piuttosto, fa male quando certe immagini perdono questo fine, e vengono snaturate per diventare spot, per esser giudicate come belle o brutte..come in un concorso di bellezza.
RispondiEliminaGrazie dei commenti. PJ, mi ha fatto molto riflettere quello che hai detto riguardo alla mancanza di documentazione dei gulag sovietici e i campi di sterminio in Cambogia.
RispondiEliminaCredo che sia fondamentale, pero', che i fotoreporter non perdano l'umanita' necessaria per svolgere il loro lavoro. Nel documentario si vedeva un fotografo che scattava un'immagine di un uomo dentro una capanna con il figlio mezzo morto affianco. Dopo aver premuto il bottone, ha riguardato la foto nel display e ha detto: "Fantastic!"
Mi viene anche in mente Kevin Carter, quel fotografo che ha scattato la famosissima foto del bambino scheletrico e l'avvoltoio dietro che aspetta che muoia. Quella foto gli e' valsa un Pulitzer.. solo dopo si e' scoperto che Carter era rimasto 20 minuti davanti alla bambina per fotografarla nel momento giusto. E, scattata la foto vincente, se ne e' andato senza aiutarla. So che poi Carter ha pagato da solo il prezzo di questa azione (si e' suicidato qualche anno dopo). Ma credo anche che Carter non sia l'unico.
Pero' hai ragione PJ quando dici che questo e' un discorso che vale per tutti i lavori e le professioni.. mantenere l'umanita' e' un compito per il fotoreporter come per il giornalista, il medico, il manager di azienda. Mi sono soffermata sui fotoreporter perche' il documentario parlava di loro con immagini molto forti. Grazie a PJ e Massimo per queste riflessioni.
Per la foto di Carter: http://www.clickblog.it/tag/bambina+e+avvoltoio