giovedì 23 dicembre 2010

Io sono uno studente

Io sono in macchina. Cerco di uscire da Roma per raggiungere il Friuli. La tangenziale è trafficata come sempre. Penso che lo sarà ancora di più fra qualche ora, quando gli studenti occuperanno il centro. Non sarà così. Gli studenti occuperanno la strada che ora percorro. Penso a Anna, che ci metterà sempre di più a tornare a casa questa sera. Ma so che non le dispiacerà. Non nevica.
Scopro quanto è brutto non avere una connessione a Internet e non sapere cosa succede minuto per minuto. Aspetto i giornali radio con curiosità. Massimo è lì. Dove non so, ma con quell'onda che spero diventi una marea e ripulisca la spiaggia. Massimo è lì con i suoi amici, dove vorrei essere anch'io. Ci sono, con la mente e il cuore. La radio parla. Per ora nessuno scontro. Ogni tanto mi arrivano messaggi sul cellulare, il cellulare che non si connette a Internet. Sento allegria in quei 160 caratteri. Tangenziale - dove ero poco fa. Snia - dove sono spesso. La radio mi dice che non succede niente. Massimo mi dice che succede molto. Sono felice, ma le mie scarpe non si consumano su quell'asfalto.
La sera arriva presto ora che è in inverno. E io arrivo in Friuli. Niente Internet. In tv c'è solo il Tg1. Mi rifiuto di vederlo. Piuttosto aspetto. Mangio presto. Aspetto. Vedo il tg La7 e vedo, finalmente vedo, gli studenti che camminano e sorridono. Vedo quello che Massimo, Fabio e Carlo hanno visto. Vedo le macchine bloccate ma gli autisti che sorridono. Una scena mai vista a Roma. Biglietti che dicono "Daje Regà!" e persone che si affacciano ai balconi e sorridono.
Dopo cena arrivano i miei zii. Il panettone, i cioccolatini, il caffé amaro. La conversazione cade sulla politica. Mio nonno che era pastore, poi operaio, generalizza. Discorsi che a me sembrano sempre a difesa della destra. Mio zio anche si rifiuta di ascoltare ancora una volta i soliti discorsi. Parliamo della manifestazione, delle proteste. Parla degli studenti e si rivolge a me dicendo "voi". A me si riempie il cuore di orgoglio. Mio cugino lo corregge. Carlo sottolinea che sta parlando di una categoria. E io sorrido. Io sono orgogliosa.
Io sono uno studente. Io faccio parte della categoria.


mercoledì 22 dicembre 2010

Mentre noi protestavamo

Giornata particolare, emozionante. Sicuramente estenuante. Una marcia iniziata in sordina, in ritardo. Partenza ore undici, poche centinaia di studenti aspettano dalle nove e mezza sotto una pioggia sottile e fastidiosa. Sono lì, aspetto con gli altri. Il corteo parte, risale Viale delle Scienze, gira a destra in Viale dell'Università, ancora a destra in Via Regina Margherita. Poliziotti? Non ce ne sono, non ce n'è bisogno.
Si arriva in Piazzale del Verano correndo, siamo migliaia. I tamburi guidano i nostri passi, la chitarra le nostre menti, gli slogan sciolgono le nostre gole. Un ragazzo canta e suona La canzone del Maggio. Ci facciamo l'occhiolino, cerchiamo di seguirne le note nel frastuono. Camminiamo, si chiacchiera degli esami, degli esoneri passati, di politica, di Cetto La Qualunque. Sembra la gita di fine anno, siamo tutti vicini, ormai tantissimi, trascinati festosamente per San Lorenzo fino a Porta Maggiore, sotto la Tangenziale attraverso la Prenestina. Ma dove stiamo andando? Vaghiamo a vuoto! Almeno crediamo. Donne, anziani, famiglie, persone, si affacciano dalle finestre e ci guardano curiosi, tutti ci applaudono. Noi rimandiamo il saluto con un boato felice. Ma Carlo dov'è? Lo chiamo non mi risponde, mi chiama ed è cento metri dietro di me. Poliziotti? Non ce ne sono, non ce n'è bisogno.
I lavoratori si affacciano dagli uffici, come prima medici ed infermieri dal Policlinico. Spingono i nostri passi, ci abbracciano dolcemente con i loro sorrisi. Leggo speranza. Fabio, andiamo che ti faccio vedere la Snia. Vedo Diallo, riconosco Veronica che fa le foto. Ci allontaniamo pochi metri, torniamo indietro e la rampa per la Tangenziale è già piena. Dovevamo tornare a casa, dovevamo lavorare ad un articolo. Dovevamo.
Abbiamo camminato sulla Tangenziale. Daniele, Federico, Perla, Licia mi indicano un palazzo giallo in lontananza. Vedi? Vedi Laggiù? Ero senza occhiali. Vedi laggiù? Siamo noi! Siamo noi! Arriviamo fino a là! Siamo diventati un'onda, una marea, ma i poliziotti erano lontanissimi, chissà dove. Non ne ho visto uno fino alla fine della manifestazione, non mi era mai successo prima. Mi sono sentito più tranquillo, ho pensato che magari anche loro erano a manifestare con noi, come il tredici dicembre sotto la Camera.
Arriviamo al bivio per l'A24. Le macchine sono bloccate, chissà da quanto. Un uomo esce dalla sua vettura e si siede sul cofano. Dalla bretella, gli autisti ci salutano con il clacson e con la mano.


Abbiamo costretto tante persone in macchina per ore, hanno ritardato appuntamenti, hanno spento i loro motori. Ma ci hanno accolti come li stessimo liberando, come li stessimo svegliando. Io non sono facile all'ottimismo, io non credo nella speranza, ma per un attimo ne ho avuta.
Schegge impazzite in una città stanca e caotica, anche gli automobilisti ci hanno offerto il loro appoggio. Incredibile.

Ma tanto per non farsi mancare nulla, io e Fabio torniamo all'università, a studiare. Incontro Giulio: è morto un operaio, a Scienze Politiche. Mentre noi protestavamo per la nostra università, per una riforma che riteniamo dannosa, nella nostra università moriva un ragazzo. Moriva nella mia Facoltà, moriva oltre il muro delle nostre aule. Moriva accanto a noi. Non mi sono perdonato quell'attimo di ottimismo, lassù sulla Tangenziale tantissimo tempo prima, tanto tempo che sembrava un altro giorno, tanto tempo che ero un'altra persona.


lunedì 20 dicembre 2010

Questo Paese che muore



Questo Paese che muore quando ci vince la pigrizia, quando ci dimentichiamo che siamo importanti, e che è importante ricordarcelo.
Questo Paese che muore perché ci fa scordare chi siamo e allontana chi vorremmo essere.
Questo Paese che muore quando non parliamo, ma ascoltiamo e basta.
Questo Paese che muore perché promette, illude, delude, riaccende speranze, ma poi le rispegne...
Questo Paese che si fa forza sulle nostre debolezze, ma si sbaglia di brutto.
Questo Paese che muore molto lentamente, perché ha ancora tantissime persone su cui contare.
Questo Paese che muore perché opprime e priva, e chi si sente oppresso e privato perde ogni giorno un po’ di voglia di aiutarlo.


Feda

Questo paese che muore dolcemente e senza fatica.
Perché dannarsi l'anima se è impossibile evitarne la morte?
Perché è con l'amore e il sudore della nostra fronte che manterremo l'Italia ancora attaccata alla vita.
Potrà essere un filo sottilissimo, ma c'è!
Come dice il proverbio: "la speranza è l'ultima a morire" ed io ancora non l'ho persa.

Pasquale

Io non credo che l'Italia versi in condizioni così disastrose; credo piuttosto che si troverà in queste condizioni se le sue redini resteranno ancora nelle mani di un governo come quello attuale.
Per fortuna la differenza non è sottile. La descrizione che è stata fatta è quella di un malato terminale in cui le metastasi pervadono tutto il corpo; io credo che il tumore sia allo stato iniziale. 
Forse questo pessimismo lo relegherei all'annoso problema delle mafie, problema irrisolvibile a breve tempo (breve?). 
Faccio alcuni superficiali esempi: la costituzione italiana è una bellissima costituzione e la corte costituzionale è un organo che ancora riesce a tutelarla, la sanità tutto sommato è buona (è garantita a chiunque, cosa non da poco se paragonata a quella di altri paesi), la scuola benché minata alle fondamenta è ancora efficiente e l'università è come una bella donna che sta per essere stuprata.
Per non parlare dei paragoni che si possono fare con altri paesi (e non parlo solo dell'emisfero nord del mondo) o con l'Italia stessa in epoche passate. Il problema del lavoro è effettivamente un tasto dolente, che però riguarda quasi tutto il mondo ed è comunque caratteristico di questo periodo storico.
Insomma, bisogna battersi perché abbiamo da perdere, non perché abbiamo a cuore il gol della bandiera!

Marco

Più che critiche, sono un completamento del mio pensiero!In qualcosa non sono stato molto chiaro, mi sono lasciato prendere dalla prosa. Non do l'Italia per spacciata, mi fanno più paura gli italiani. Sanità, scuola, università: non saremo gli ultimi del mondo occidentale, ma io pretendo di più, e mi avveleno perché dobbiamo subire la malagestione degli ingordi che ci governano, come te. Io pretendo di più perché credo che un cittadino di una democrazia debba pretendere di più.
Ed è vero: non siamo malati terminali. Però dobbiamo muoverci, perchè il cancro lo sconfiggi nei primi mesi, non nell'ultimo round. Se arrivi all'ultimo round, ha già vinto lui.
Non vorrei essere frainteso: rifiuto ogni simbolismo patriottico (patria, bandiera, etc.), per me non è un valore. Piuttosto rispetto il luogo dove vivo (qualunque esso sia e sarà), e lo rispetto talmente tanto che non posso accettare il modo in cui è gestito. Le gettate di cemento, lo sventramento del sottosuolo per i parcheggi privati (a 100000€ a boxe), il disboscamento delle montagne a ridosso delle cittadine, le conseguenti frane. Tutte queste cose mi fanno incazzare non per amor patrio, ma per il profondo rispetto che ho della vita.
Il mio richiamo finale è il nodo del post: abbiamo il tempo e la possibilità di cambiare il nostro futuro, di pretendere di cambiarlo. Avere la possibilità non basta, bisogna coglierla. Facciamo in modo non rimangano parole. Deve essere un impegno.

Massimo

Con questa lieve correzione di rotta ricalchi alla grande il mio punto di vista soprattutto sul fatto che dobbiamo sempre pretendere di più (altrimenti oggi staremmo ancora lottando contro la schiavitù) e sul fatto che "dobbiamo muoverci, perché il cancro lo sconfiggi nei primi mesi, non nell'ultimo round."

Marco

Questo paese che sembrava morire nel ventennio fascista,
Questo paese che sembrava rinascere negli anni '60,
Questo paese che sembrava ribellarsi negli anni '70.
Questo paese ora immobile perché imbavagliato,
Questo paese amaro ed amato,
Questo paese è il nostro paese e dobbiamo difenderlo dal qualunquismo, dall'ignavia, dall'ignoranza, dalla sopraffazione, dalla codardia, da noi stessi...
Questo paese ha bisogno di noi.


Paolo


giovedì 16 dicembre 2010

Il potere di Wikileaks

Ultima puntata del racconto di Pierluigi... per visualizzarli tutti in ordine cronologico cliccate sulla tag "computer"! Buona lettura!

Wikileaks è tutt'ora considerato da molti come una sorta di paladino della libertà, come un esempio della rete partecipativa che smaschera le malefatte di governi e multinazionali. Secondo me, quello di chi crede a queste idee è semplicemente un grosso abbaglio. Wikileaks, come gli ISP sui quali le informazioni transitano (e vengono copiate...) ha tutte le carte in regola per diventare una concentrazione di potere: ho sentito molti commenti sui documenti pubblicati da questo sito, ma nessuno sul fatto che chi dispone di queste banche possiede, potenzialmente, una capacità di influenza senza precedenti. Mr. Assange, è il creatore e “editor-in-chief”, come lui si definisce, di Wikileaks. E' un personaggio di straordinaria intelligenza e con una creatività assolutamente originale; sembra un giornalista di rara abnegazione e probabilmente la sua onestà è cristallina come appare. Tuttavia, non voglio istillare il dubbio, né parlare della sostanziosa polemica che sta lievitando in questi giorni. Il mio ragionamento coinvolge questo caso specifico, ma, come dicevo, non riguarda tanto il merito di che cosa viene acquisito in queste banche dati, ma il come questi dati vengono raccolti, concentrati e poi diffusi.
Ci si può fidare ciecamente solo della nobile disposizione d'animo del detentore di queste informazioni se, forse non Assange, eviterà di utilizzare questa banca dati a scopo di ricatto? O di estorsione? Siamo del tutto sicuri che i tutti i dati pubblicati coincidono esattamente con quelli ricevuti? Non potrebbe essere che magari c'è anche qualcos'altro? Magari dopo aver fatto intendere a chi ha orecchie per intendere che questo qualcos'altro potrebbe essere pubblicato in futuro?
Chi possiede la banca dati, possiede questo potere. E i dati di Assange, come quelli degli ISP, non si ha modo di sapere dove si trovino fisicamente, e addirittura possono benissimo essere divisi e copiati su un numero sterminato di computer sparsi per tutto il mondo; magari un pezzettino di quei dati è transitato anche sul mio computer, o su quello di chi sta leggendo questo appunto. Non si tratta di fantascienza, un computer collegato alla rete, e tutti sono ormai collegati, è un nodo della rete dotato di capacità di memorizzazione e di comunicazione. Può essere controllato a distanza e a completa insaputa dell'utente, la riservatezza è garantita solo dalla serietà (sempre dichiarata, mai verificabile) dell'ISP... Ma gli ISP principali sanno perfettamente di cominciare a possedere una banca dati sterminata, che tutto contiene, tutto elabora, tutto sa. La Banca Dati Mondiale. Sanno perfettamente di avere ormai la potenzialità per diventare qualcosa di non tanto diverso dal Grande Fratello di Orwell. Sanno perfettamente di cominciare a possedere il mondo.

lunedì 13 dicembre 2010

Il nuovo Grande Fratello

Pubblichiamo la quarta puntata del racconto di PJ! Buona lettura!

Oggi non esiste più una sola informazione importante o banale, dal prezzo di un prodotto ai dati anagrafici di una persona, dall'orario di un treno ai dati statistici di un'azienda, da una ripresa da satellite a una telefonata fatta all'amante, da una cartella clinica ai dati di un conto corrente bancario, che non risieda in una banca dati ospitata su un computer, e non esiste più un solo computer che non sia collegato, o collegabile, a Internet. Tutte queste informazioni, dunque, sono presenti in un modo o nell'altro nella rete mondiale, e sono integrabili fra loro. La segretezza e riservatezza, l'impedimento all'accesso abusivo, sono affidati a tecniche sempre più sofisticate, come sempre più sofisticate sono le tecniche adottate da coloro che di questi dati si vogliono impadronire. Come nella eterna sfida fra il cannone e la corazza.
La nuova rivoluzione, il cosiddetto Web 2.0, vedrà l'archiviazione di qualsiasi dato solamente attraverso Internet, nella banca dati del proprio ISP (Internet Service Provider), senza nemmeno più la necessità di archiviarlo sul proprio computer, senza nemmeno la necessità di avere installato il programma necessario a generarlo. Anche il mio zibaldone potrei scriverlo e archiviarlo utilizzando, per esempio, Google Documents, il bellissimo word processor di Google, che fornisce da Internet tutte le funzioni utili per la scrittura e mette a disposizione sul loro server tutto lo spazio di archiviazione necessario. In questo modo non si ha bisogno di portarsi dietro i documenti e se vogliamo neanche il computer, poiché si può accedere alle proprie cose da qualsiasi computer in qualsiasi parte del mondo, avendo a disposizione sempre lo stesso programma. Potrei scrivere lo zibaldone così, ma non lo faccio. Sono sicuro che a qualcuno che gestisce il loro server, che non si ha modo di sapere dove si trovi, non venga in mente di dare un'occhiata? Sono sicuro che qualche abile hacker non si appropri del loro rinomato “cloud” di dati a scopo di estorsione? Del mio zibaldone, certo, non fregherebbe niente a nessuno, ma i gestori di grandi quantità di dati (dati di ogni tipo, dati sensibili e non) già ora si servono del Web 2.0, perchè in questo modo i costi di archiviazione e di gestione delle banche dati sono enormemente inferiori.
Sembrano passati secoli da quando avevo comprato l'antidiluviano Amstrad. Secoli durante i quali si è passati dalla interconnessione fra un centinaio di appassionati ad una rete mondiale che ha cambiato l'economia, la politica, la vita. Nessuno l'aveva previsto, almeno in questi termini e con questa dimensione, infatti Internet non ha un vero inventore, e il suo sviluppo ha seguito semplicemente quello delle macchine che lo rendono possibile; ad ogni evoluzione tecnologica del computer gli esperti, ma anche i semplici utenti, si sono ritrovati fra le mani delle potenzialità insospettate che hanno poi generato le nuove idee e le nuove applicazioni. E' così che sono nati il commercio elettronico, i social network, i motori di ricerca. Ed ora stiamo assistendo ad una ulteriore evoluzione, nella quale addirittura i computer, il software, le banche dati e la rete sfumano uno nell'altro e cominciano a farsi indistinguibili; ormai anche molti oggetti di uso comune, che sembrerebbero estranei alla alimentazione delle banche dati, contribuiscono a fornire preziose informazioni agli ISP: non solo i nuovi smartphone, che forniscono continuamente informazioni su dove ti trovi, su quali sono i tuoi interlocutori e i tuoi gusti, su cosa stai facendo; anche le biglietterie elettroniche per ogni tipo di trasporto pubblico; anche il Telepass per le autostrade; anche la miriade di telecamere di sicurezza; anche i banali controlli di accesso a qualsiasi ufficio, perfino i contatori elettronici dell'energia elettrica. L'elenco sarebbe lunghissimo, e nessuno ormai può pensare di poter sfuggire ad almeno qualcuna di queste applicazioni, in sé assai attraenti e utili, spesso perfino indispensabili. Ma sono anche esempi di come le banche dati si stanno enormemente dilatando, ed hanno cominciato ad includere praticamente la totalità delle informazioni in qualsiasi modo classificabili, su tutto e su tutti.

Continua...

domenica 12 dicembre 2010

The Black Pebble

Pubblico un racconto di un po' di tempo fa, uno dei pochi che ho scritto in inglese. Le critiche sono ben accette. Buona lettura!
So, that was everything that remained about his life. That was all: his tall body sitting on a wooden bench at the port. His inexpressive face was directed towards the empty endlessness of the sea and the right margin of his ruined jacket was shaken by the marine wind blowing from the horizon. He felt a little bit cold, even though it wasn’t that chilly for being well on in October. However often he shrugged his shoulders, he couldn’t avoid that shiver passing through his backbone. His eyes were stuck upon a cargo ship ploughing on the horizon. It was so distant and blurred by the brackish air, that it seemed like it didn’t move. His life was pretty much like that cargo ship: it was running fast, but it seemed stuck in a fixed point. It seemed out of time.
He didn’t remember how long he had been sitting on that bench, but many cobles and fishing boats had passed by and left the dock and many people, fishermen and porters, had walked in front of him, without noticing his transparent figure sitting crooked on the quay. The dry color of his jacket and common brownish shade of his trousers made it almost difficult to recognize the body from the bench. Nevertheless, he found himself at that port, on that bench, because he had wanted to depart and differentiate himself from the surrounding. He had reached one of those moments in which there is no other solution than leaving. And he had left. He had gathered a few things in an old backpack, he had taken the book with him and he had taken the first train going east. He had no plans, no projects, even no goals. Having no goals was what his father had always accused him of, but his father didn’t know and was too stubborn to even wonder about his son’s true thoughts.
Now, without the overwhelming antagonistic figure of his father close to him, he found it difficult to think about something other than non-sense. He had goals, but those goals seemed to have vanished now, without his father ignoring them. Wasn’t it because of his father’s indifference that he had left? He couldn’t even remember. He was just tired. Tired of the walls of his house and the shining green grass of the front garden. Tired of the neatly painted white fence and the perfectly shaped hedge running on the right side of their detached house. Tired of the aligned white pebbles of the drive and the kitchen white curtains trimmed with lace. But he was especially tired of the late evening discussions around the dining table, above which the pendent lamp used to light his parents’ and sister’s faces, creating disquieting shadows under their noses and lower lips. That cone of light had witnessed thousands and thousands of words floating towards the ceiling, hundreds of screams and his sister’s tears.
His sister… she was the only one he was truly missing. Her sweet smile and the quivering eyes she used to set upon him while the silence filled the kitchen like a thick, palpable fog. The thought of her being alone in that house made him shiver even harder. Where had he found the courage and selfishness to leave her? She had accepted their parents’ way of thinking, their creed of living, their old, stupid mentality he hated so much. Or, at least, she had subdued herself to that mentality. “Don’t let them walk on you, for Christ’s sake! Stand up for yourself! Free your thoughts and tell them what you believe in!”. No matter how loud he could have shouted these words to her, his sister would just shake her frail head, her eyes filling up with salty tears of fear and resignation.
He hadn’t even told her he was leaving. He was afraid she would tell their parents the same instant he left the back door that night. He could imagine the pale face of her mother the day after, when she stepped in his room and found the bed perfectly tied up, no backpack on the top shelf of the closet, no jacket hanging from the chair, no Hamlet placed on his night table. He could see her tears and the his sister’s eyes staring at the window, in search of him. He could picture the cold gaze of his father and his lips twisted in a grimace of disdain and disapproval. He perfectly knew the words pronounced that night around the empty table: “He’s not able to survive one single day without us, honey” his father assured his mother, after finishing his bite of crumpets, “he has no idea of the world’s harshness, he has no goals. He will be back”.
His mother, in silent discretion, took the saucepan off the stove and served her husband first, then her daughter. She stopped for a second before filling her dish up with the sausages she had prepared, for after her daughter was her son’s turn. But her son was missing. His sister couldn’t stop staring at the sausages and potatoes perched in front of her, whose steam was climbing the air and making its way towards the pendant lamp.
He shook his head with a sharp movement to get rid of that annoying image. If he wanted to survive, he had to forget. He couldn’t spend all his time on a stupid bench, reflecting above the past and recalling his family. He had made a decision: he had left. He had decided to free himself. Didn’t he remember how much he had hated his parents’ bourgeois mentality? Had he forgotten about all the angry tears he had shed on his pillow before falling asleep? A gust of wind, stronger than others, seemed to bring him back to reality. His eyes moved from that cargo ship and followed the untied flight of some seagulls. He took a deep breath and courage, mixed to salty air, seemed to fill his lungs. He smiled: his whole life was ahead of him and he had his dreams, his goals, his hopes. Nothing could stop him. Appearing from nowhere, Hamlet’s words filled his mind: A dream itself is but a shadow. Wasn’t that true?
Before standing up and leaving the familiar bench, he thought of something he had seen that night, while coming out of the back door of his house, on his way to freedom: a black pebble among the other perfectly aligned white pebbles of the drive. He had stopped, his face lit up by the azurine moonlight. He bent down and took the pebble in his hand. After staring at it a couple of seconds, he slid the pebble into the pocket of his trousers. A simple, secure, smile appeared on his lips.
And off he had gone.

sabato 11 dicembre 2010

Questo Paese che muore

Questo Paese che muore. Che muore di cancro, per un inquinamento che intasa l'aria e corrompe ogni cosa, per i pesticidi che avvelenano i prodotti della Terra, per i terreni farciti di scorie e rifiuti tossici, per l'acqua dei Castelli intrisa di arsenico, per il Sole che ustiona la nostra pelle, per i tetti ricoperti di amianto.
Questo Paese che muore di leucemia, per le fabbriche che sversano le loro feci nell'ambiente, per le radiazioni che ci bombardano in ogni momento.
Questo Paese che muore di mafia, muore perché insegue e ammazza chi si ribella alle bestie, insegue e ammazza chi non muore di omertà, insegue e ammazza chi sogna la libertà.
Questo Paese che muore di lavoro, che non protegge chi lo rende grande, che umilia chi non ha voce.
Questo Paese che mortifica chi lo ama, chi lo ama perché ci è nato e chi lo ama perché ci è arrivato da lontano. Chi lo ama perché ci vive, perché ci lavora, perché ci muore. Perché "percorriamo tutta la Terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c'è luogo che sia straniero all'uomo". Lo dice Seneca, che ignorante non era.
Questo Paese che muore di odio, che avvelena le nostre menti e ci fa dimenticare che siamo fratelli della stessa Terra. Lo stesso odio che alimenta le nostre paure, ci fa sentire diversi e ci spaventa, ci fa sentire uguali e ci spaventa degli altri. Ci fa sentire soli.
Questo Paese che muore di odio, che ci suggerisce di discriminare e di avere pregiudizi, perché la cultura è da sfigati e noi siamo tutti fighi. Perché è più facile, non pensare, non riflettere, non avere un'opinione. Questo Paese che muore, muore perché ci uccide ogni giorno.
In questo Paese che muore, che muore per l'indifferenza, chi ha il potere rimane impassibile, chiude le Camere, si rinchiude nel Palazzo, fugge dalla realtà, se ne racconta un'altra.





Questo Paese che muore, che muore ogni giorno, ha bisogno di tutti noi, noi che moriamo ogni giorno con lui.

mercoledì 8 dicembre 2010

Il mondo cambia

La banca dati

Ecco la terza puntata del racconto di PJ! Buona lettura!

Invece di fare un intelligente affare, cominciai da subito a ragionare sul significato epocale e filosofico di queste novità, che mi sembravano una vera rivoluzione della quale era abbastanza difficile scorgere il confine. Data la mia scarsa attitudine alla materia, supportata anche dall'aridità culturale che scorgevo nei tecnici e ingegneri informatici di allora, mi sembrava che i computer fossero certamente utili, ma mai insostituibili, almeno nel mio campo: era ancora più semplice e rapido realizzare un buona cartografia con dei validi disegnatori che con l'ausilio del computer, inoltre le carte disegnate col plotter facevano veramente schifo. Ma poi mi accorsi che a quelle squallide carte potevano essere associati dei dati, enormi quantità di dati, e il tutto poteva essere contenuto su un singolo nastro magnetico. Inoltre, questi dati associati alla mappa potevano essere consultati e ricercati nei modi più disparati, come mai si sarebbe potuto fare su carta, a meno di costruire immani indici analitici. Questo sì. Questo lo vedevo come una caratteristica unica e insostituibile della trattazione digitale dell'informazione. La banca dati, l'archivio perfetto, che non occupa spazio, che permette di ricercare quello che serve senza bisogno di fornire numeri di repertorio, che combina le informazioni in tutti i modi desiderati, che è in grado di trovare da solo uguaglianze, somiglianze, incongruenze, che aiuta a scoprire relazioni fra i dati. Che fa tutto questo in modo praticamente istantaneo. Nessun archivio cartaceo potrebbe fornire queste prestazioni, dunque mi ero accorto che la banca dati costituiva un concetto nuovo, possibile solo ed esclusivamente con l'utilizzo del computer.
E poi comparve quest'altra rivoluzione: la facilità di comunicazione. I computer potevano essere connessi in una rete grande come tutto il pianeta. Tutte le banche dati del mondo, residenti su computer connessi come le maglie di una rete da pesca, o come i neuroni di un cervello, potevano essere consultate da uno qualunque di questi computer, il quale a sua volta metteva a disposizione la propria banca dati. Era Internet, la rete internazionale. Era un altro concetto nuovo, anche questo possibile solo grazie all'utilizzo del computer.
Certo non potevo ancora immaginare come e quanto Internet si sarebbe diffuso, quali e quante informazioni avrebbe contenuto, quanto si sarebbe integrato nelle telecomunicazioni, fino a far scomparire il concetto stesso di comunicazione telefonica classica, di televisione, di servizio postale.
Ma soprattutto, non avevo immaginato fino a quale punto Internet avrebbe fuso insieme tutte le banche dati esistenti e proliferanti nel mondo. Non avevo immaginato che sarebbero stati inventati i motori di ricerca, vere banche dati delle banche dati, capaci di trovare all'istante qualsiasi informazione, ovunque nel mondo, purchè disponibile in rete.

Continua...

lunedì 6 dicembre 2010

Lazio: riforma dei consultori

Pubblichiamo il primo articolo pubblicato da Massimo sul sito labsus, laboratorio per la sussidiarietà.

Proposta di legge Tarzia n.21, 26 Maggio 2010
Una sussidiarietà che non convince gli ordini professionali

da www.labsus.org sabato 04 dicembre 2010
| Massimo Ferraro


La proposta di legge n. 21 del 26 Maggio 2010 è stata presentata dal consigliere regionale di maggioranza Olimpia Tarzia (Lista Polverini), ed ha come oggetto la “Riforma e riqualificazione dei consultori familiari”. L’iter dell’atto è assai laborioso, sia per le diverse sensibilità coinvolte nel provvedimento, sia per il percorso di audizioni scelto dal presidente della Commissione Lavoro, pari opportunità, politiche giovanili e politiche sociali, Maurizio Perazzolo.
Il principio di sussidiarietà come mezzo per includere le diverse categorie professionali, ma non sono definite le risorse economiche, strutturali e umane per attuarlo
Nella relazione sulla proposta di legge n.21, la consigliera proponente di maggioranza Olimpia Tarzia sottolinea che le istituzioni pubbliche avranno una posizione sussidiaria nei confronti del consorzio familiare e delle associazioni ed organizzazioni senza scopo di lucro che promuovono i valori familiari.
Secondo le intenzioni della proponente, ciò dovrebbe agevolare una dinamica espansione del ruolo della famiglia e delle associazioni familiari. In quest’ottica, viene invocato l’art. 118 della Costituzione per l’attribuzione ad esse della funzione e del ruolo di istituzioni sociali con fini pubblici.
Nell’art.20 infatti, si rileva che “è di rilievo pubblico, ancorché sia retto dal diritto privato, non solo ciò che promana dal soggetto pubblico ma anche ciò che concorre al bene comune”.
Bene comune in questo caso individuato nella promozione di valori, culturali ed etici, della famiglia, nei confronti dei quali verrà privilegiato e favorito il lavoro dell’associazionismo femminile e territoriale, espresso da Consultori privati senza fini di lucro, cui verrà attribuita la qualifica di istituzioni sociali a fini pubblici (ISFP) . Ciononostante, è prevista anche l’istituzione di Consultori privati con fini di lucro che mediante accreditamento accederanno al finanziamento pubblico.
Rilevante è anche la scelta di istituire “un Comitato Bioetico indipendente per la valutazione dei servizi consultori ali pubblici, composto secondo criteri di interdisciplinarietà”, come recita l’art.26 comma 1.
Secondo le nuove disposizioni, il consultorio avrebbe competenze in materia educativa, giuridica, psicologica, sanitaria, socio-assistenziale. Lo scopo è di aiutare la donna e la coppia “prevedendo e prevenendo situazioni di crisi”, mettendo insieme i differenti saperi tecnici, professionali e sanitari dei vari operatori. La conoscenza, intesa come bene comune, al servizio della vita come bene comune.L’analisi dell’Ufficio LegislativoL’Ufficio legislativo della Regione Lazio, nella sua analisi tecnica della proposta di legge, ritiene che questa impostazione possa incorrere in una violazione dell’art.3 della Costituzione Italiana, poiché sembrerebbe “escludere dalla tutela i concepiti delle coppie di fatto e delle donne sole”, e ciò non garantirebbe quella condivisione a carattere di non escludibilità che qualifica i beni pubblici.
I continui richiami alla sola realtà familiare sono consacrati nella definizione di consultorio, espressa nei commenti della stessa consigliera Tarzia all’art.13 della proposta di legge n.21, come “struttura istituzionalmente preposta ad attuare, nei servizi alla famiglia, alla vita e al figlio concepito (già considerato membro della famiglia), il riconoscimento costituzionale del valore primario della famiglia nella sua unità e fecondità, disputando un ruolo conforme alla sua istituzionale vocazione”.Il parere della Consulta FemminileOltre ai rilievi dell’Ufficio legislativo, che investono anche altri aspetti in possibile contrasto con norme costituzionali e leggi precedenti, preoccupano i due pareri negativi della Consulta Femminile e di tre diversi Ordini professionali.
Il primo parere è quello della presidente Persichetti, la quale esprime i suoi dubbi su questioni di base della proposta quali la prevenzione e la salute della donna, nonché sull’impianto fondativo dei nuovi Consultori, previsti come strutture sì di sostegno, ma solo alla famiglia, negandolo a “quelle persone che scelgono stili di vita diversi dal matrimonio e alle donne sole”. Altre perplessità investono le coperture finanziarie e la reale necessità di abrogare la legge precedente.Il parere degli psicologi, degli assistenti sociali, dei medici chirurghi e odontoiatriUn documento sottoscritto dalla presidente dell’ordine degli psicologi del Lazio, Marialori Zaccaria, dal presidente dell’ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, Mario Falconi e dalla presidente dell’ordine degli assistenti sociali del Lazio, Giovanna Sammarco, esprime parere negativo alla proposta di legge Tarzia. Il giudizio condiviso delle tre categorie è tanto più importante, in quanto esse sono le principali professioni investite da competenze consultoriali da questa stessa proposta, ed in quanto sono i principali attori, insieme alle realtà dell’associazionismo e del volontariato, dell’attività che ivi si svolge.
Il documento sottoscritto dai rappresentanti locali dei tre ordini è molto lucido, fa riferimento alla realtà sanitaria dei consultori, alle carenze di strutture, di personale, di fondi, e non vede nella proposta di legge alcuna risposta a questi pressanti problemi.
Al contrario, tale documento denuncia la mancata previsione di misure economiche aggiuntive, a fronte poi di uno “smembramento del fondo regionale previsto dall’articolo 15 della legge regionale n.15 del 1976 (che la proposta di legge Tarzia intende abrogare) in tre diversi fondi di una non meglio precisata entità, eliminando la possibilità per Regioni ed Enti locali di stanziare risorse integrative”; ancora, “la proposta di legge prevede l’inserimento di figure professionali di incerta definizione e con competenze di dubbia attestazione”.
Lo stesso Ufficio legislativo regionale si era pronunciato negativamente su questo aspetto, in quanto la previsione e ancor più l’istituzione di nuove figure professionali (tali sarebbero il “consulente familiare” e il “mediatore familiare” indicati all’art.16 della proposta di legge n.21) esulerebbero dalle competenze della Regione, come già previsto dall’art 117, terzo comma della Costituzione.
Il parere dei professionisti è corredato da statistiche impietose sullo stato dei consultori del Lazio, che confermerebbero la carenza di risorse umane, economiche e strutturali. Probabilmente in questo senso va la previsione, nella proposta di legge Tarzia, dell’apertura ai privati (sia no-profit che a scopo di lucro) che potrebbero investire in nuovi locali e attività sanitarie. Ma anche questo punto ha subìto una prima bocciatura dall’Ufficio legislativo, che ne prevede il contrasto con norme statali precedenti (l. 405/1975).
Il documento di consulenza delle categorie professionali coinvolte si conclude con la richiesta di ascoltarne i rilievi, e di rafforzare le leggi che “ci sono e vanno bene, basterebbe attuarle in pieno, soprattutto attraverso il conferimento di maggiori risorse”.Un tentativo di analisiSecondo una prima analisi di un testo che sta proseguendo il suo iter e per volere del presidente della Commissione lavoro, pari opportunità, politiche giovanili e politiche sociali, Maurizio Perazzolo, è oggetto di confronto e audizioni dei soggetti e delle diverse sensibilità coinvolte, sono giudicabili positivamente i tentativi d’inclusione delle diverse realtà sociali e del volontariato privato nell’attività consultoriale.
Bisogna però considerare che la precedente legge regionale in materia, la n.15 del 1976, che questa proposta di legge intende abrogare, già prevedeva un ruolo attivo e partecipativo di “associazioni femminili o delle donne, associazioni familiari, organizzazioni sindacali e sociali rappresentative del territorio” perché definissero a loro volta “le forme di partecipazione degli utenti alla formulazione dei programmi e delle scelte da effettuare” (art.8).
Nell’art.2 sono esplicitamente affermate le finalità educative, informative, di assistenza sociale e sostegno psicologico presenti anche nella proposta di legge n.21, ma vi è un preciso riferimento alla libertà di scelta del singolo e della coppia che è assente nella nuova proposta.Breve considerazioneI consultori familiari sono parte di quella rete di servizi che lo Stato mette a disposizione del cittadino. Sono il presidio dell'agire pubblico, nello specifico sanitario, in difesa di un bene comune, in questo caso il diritto alla salute e all'assistenza.


Ma l'azione dello Stato è stata concepita come sussidiaria a quella del cittadino, che vi partecipa attivamente tramite organizzazioni ed associazioni rappresentative degli interessi coinvolti: lo Stato mette a disposizione le strutture e i fondi, i privati ne usufruiscono per prestare un servizio alla comunità.
Il contributo dei cittadini è essenziale. La carenza delle risorse economiche e strutturali ne pregiudica però l'efficacia, se non l'esistenza stessa. L'apertura ai capitali e alle energie dei privati può essere una risposta positiva da parte delle istituzioni, qualora essi abbiano le risorse che lo Stato non riesce a garantire.
Il timore nasce dalla parallela concessione delle medisime competenze e responsabilità agli istituti privati con fini di lucro. Il rischio è lo smantellamento graduale ma progressivo del servizio pubblico in questo settore, a vantaggio di altre realtà che farebbero di un bene pubblico primario un prodotto esclusivo del mercato e delle sue leggi, venendo con ciò meno il carattere qualificante di "non escludibilità" che è proprio di ogni bene pubblico.
(1) per approfondimenti, leggere l'editoriale di Paola Toniolo Piva "La Sanità Condivisa".

domenica 5 dicembre 2010

La prima connessione a Internet

Pubblichiamo la seconda parte delle riflessioni di PJ! Buona lettura!


E qui ecco di nuovo il mio antidiluviano Amstrad. Era dunque uno strumento molto velleitario, quanto a possibilità di utilizzo, però conteneva disperso nei suoi circuiti, un oggetto misterioso di nome modem, che inizialmente non avevo nemmeno notato, dato che le istruzioni non lo nominavano. Ricordo solo che notai una piccola presa su un lato del computer accanto alla quale era incisa questa parola misteriosa “MODEM”. Non che fossi particolarmente interessato a scoprire di cosa si trattasse, dato che allora il computer non si usava mai per comunicare, e non mi era certo venuto in mente che quella piccola presa avrebbe significato una rivoluzione epocale nella diffusione e moltiplicazione dello scibile umano. Tuttavia un giorno notai in un'edicola un manuale con un titolo che mi incuriosì “Guida ai segreti del modem”, e ovviamente lo comprai, io ero uno dei pochi possessori di questo strano apparato. Il libro era scritto talmente male che per le prime dieci pagine nemmeno si capiva a cosa il modem potesse servire (secondo la classica, autistica, patologia mentale degli informatici che danno sempre per scontato che chiunque capisca al volo il loro gergo e le loro sigle e i loro acronimi). Dopo cominciava la criptica descrizione dei comandi necessari a farlo funzionare dopo averlo attaccato a una linea telefonica. Comandi da impartire a mano, secondo rigide sequenze, prestando ascolto e interpretando correttamente i fischi e le pernacchie che la perversa macchinetta emetteva. Comunque, in fondo al libro comparve finalmente l'unica indicazione veramente utile, che spiegava chi chiamare con questo modem. C'era una breve lista di numeri di telefono, dei quali ben cinque in America, tre in Gran Bretagna e uno solo in Italia. Si trattava del numero della rivista di informatica MCLink. Composi dunque laboriosamente questo numero e finalmente ottenni risposta, dall'altoparlante del computer si sentì dire “Pronto?”... Forse non si trattava di un modem che rispondeva dall'altra parte, ma non ne ero completamente sicuro, tanto che cominciai a dare alcuni altri comandi descritti dal manuale, finchè dall'altra parte del filo non mi giunse questa preziosa indicazione “guardi, il modem ora è staccato, provi a chiamarmi a questo numero col telefono”. Questo fu il mio primo collegamento, ma altri poi ne seguirono ed ebbero successo. Era entusiasmante, sembrava di essere dei radioamatori e scoprii che la comunità italiana degli utilizzatori di modem contava ben un centinaio di persone. L'attività principale era una chat primordiale, e quello che trovavo più stupefacente era che riuscivo a comunicare anche con gli altri pionieri che si trovavano a Milano senza dover pagare l'interurbana. Mi fu assegnato l'anno successivo un indirizzo sperimentale di posta elettronica, e mi spiegarono il concetto di questa nuova forma di comunicazione, concetto che non afferrai subito (mi sembrava impossibile che si potesse ricevere un messaggio senza essere connessi nel momento nel quale esso veniva spedito). MCLink, allora una cooperativa di entusiasti, mi propose anche di cominciare a lavorare con loro su queste novità, ed io, con il fiuto per gli affari che mi contraddistingue, naturalmente declinai l'offerta... Ero comunque stato uno dei primi in Italia ad avere un indirizzo di posta elettronica, e poi ad accedere ad Internet.

Continua...

giovedì 2 dicembre 2010

Correva l'anno 1988

Pubblichiamo uno scritto "a puntate" di mio zio Pierluigi, sotenitore del blog e divertente scrittore. Un'analisi sull'importanza dei computer e il potere della rete. Uno scritto che ha tanto da insegnare e propone interessanti spunti di riflessione.
Buona lettura e un grazie a PJ!

Un bel po' di tempo fa, era il 1988, comperai il mio primo computer. Era un Amstrad, un laptop ante-litteram, che aveva la presunzione di poter funzionare a batteria e di essere portatile (era quello della foto qui accanto). In realtà, era un oggetto bislungo, ingombrante e pesantissimo, dotato di uno schermo minuscolo a cristalli liquidi, in bianco e nero e di difficile lettura. La batteria era costituita da dieci pile torcia, che si esaurivano dopo nemmeno un'ora e talvolta non avevano abbastanza potenza, neanche da nuove, per far partire il disco fisso. Tuttavia, i personal computer da tavolo erano già in uso e cominciavano a farsi strada nel lavoro degli uffici; certo, per applicazioni appena più complicate che la semplice scrittura o il calcolo con un foglio elettronico elementare, bisognava ricorrere ai cosiddetti mini-computer, che erano definiti “mini” perchè invece di occupare un intero salone di 200 metri quadrati, abbisognavano soltanto di una normale stanza. In ufficio, per le nostre nascenti applicazioni sui GIS, ne avevamo uno della Digital Equipment, che per l'epoca era considerato potentissimo. Centinaia di metri di cavi erano stati stesi per tutto l'ufficio al fine di collegarlo a una decina di videoterminali sui quali gli informatici sviluppavano le prime applicazioni cartografiche, che poi venivano rappresentate su un unico terminale grafico (ovviamente in bianco e nero) oppure inviate al mastodontico plotter elettromeccanico, che era accudito da un tecnico in camice bianco. Comunque si trattava di cose all'avanguardia per l'epoca, che fecero della ora defunta Italeco un numero uno del settore. Era questo il contesto nel quale lavoravo, dunque i computer cominciarono ad interessarmi. Si trattava di un interesse un po' forzato, per la verità, poiché un umanista come me incontrava non indifferenti difficoltà ad applicare la logica matematica necessaria a farli funzionare, e soprattutto trovavo sproporzionato il rapporto fra il lavoro di programmazione e i risultati che si ottenevano.
Comunque, con i personal computer inventati da Bill Gates, le cose cominciavano a cambiare, e il genio di quell'uomo consistette per l'appunto nel capire che il computer poteva diventare uno strumento alla portata anche dei non addetti ai lavori. Delle potenzialità che si sarebbero poi dischiuse, tuttavia, nemmeno lui aveva avuto l'intuizione: non immaginava che i suoi computer presto avrebbero perso la caratteristica di essere personali, e si sarebbero trasformati in strumenti di comunicazione capaci di consentire a tutti l'accesso e la condivisione di informazioni distribuite in tutto il mondo

Continua...

mercoledì 1 dicembre 2010

Articolo 34


"La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso."


Pane e Cultura ( di Francesco Gentili)

“Con la cultura non si mangia”. Già, con la cultura proprio non si mangia. Ma con la cultura si vive, si esiste e si resta al mondo facendo sì che la propria permanenza su questo pianeta non sia orientata nell’esclusiva ricerca di un pasto per sfamarsi. E’ ciò che ci differenzia dai nostri predecessori; da quell’homo erectus che di simile a noi possedeva solo la capacità di restare in piedi, senza l’aiuto delle mani. E questa cultura evolve, si moltiplica, si estende da migliaia di anni. Da quando i nostri antenati hanno cominciato ad assumere quei tratti somatici che non hanno più consentito la percezione di differenze, perlomeno estetiche, tra “noi” e “loro”. Una cultura un tempo per pochi, pochissimi eletti che con il passare degli anni, dei decenni, si è estesa sempre più fino ad arrivare all’esplosione del ventesimo secolo ed allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Questo è quello che sappiamo noi di cultura, ammesso che tutto ciò che noi intendiamo per “incremento alla cultura” non sia solo un camuffamento, una maschera, un imbroglio. Che televisioni, radio e giornali diffusi a largo raggio siano solo una falsa cultura? Un modo per far credere a tutti di essere in possesso di metro di giudizio per poter sentenziare e farsi delle opinioni? Non lo sappiamo, ma del resto è questo il dilemma del progresso, dello sviluppo che invade i nostri ragionamenti, ormai da decenni. Di certo c’è che, anche se non sapremmo mai se quella fornita dai mass media del secolo scorso sia davvero cultura, questi ultimi hanno fatto sì che proprio lei, la cultura, arrivasse a tutti, nelle case di tutti, ricchi o poveri, istruiti o meno. E’ ciò che ci permette di conoscere, sapere, apprendere. E’ ciò che ci permette di differenziarci l’uno dall’altro.
Il ministro dell’economia di uno Stato come il nostro esprime ciò che forse tanti ritengono condivisibile, accettabile. Si accende una televisione, si apre un giornale, si sintonizza una radio e si sente un ministro della Repubblica esternare giudizi lunatici, un direttore di telegiornale che invoca il linciaggio verso coloro che esprimono il loro dissenso, editorialisti che non lasciano spazio a repliche e attaccano, puniscono, giudicano.
L’Italia migliore si mobilita. L’Italia che non ci sta, l’Italia che vuole cambiare. Ma l’Italia migliore di cui parliamo non è l’”intera generazione” che si mobilitò nel ’68. E’ una piccola parte. Sono una fetta degli studenti di un Paese stanco, senza più forza, che però non si accontentano, si ribellano, non ci stanno. Il mondo che ci impongono di vivere non ci piace, ci ripugna. E allora proviamo a cambiarlo. Manifestiamo, protestiamo, urliamo e scendiamo in piazza; tutti consapevoli che servirà a ben poco. Tutti in mobilitazione per far sì che quella cultura arrivi davvero a tutti, come quel magico articolo 34 che la Carta Costituzionale prevede.
E per chi rimane a casa, per chi crede che alla fine Tremonti tutti i torti non li abbia, per chi, sotto le coperte, si gode il tepore casalingo rimanendo all’asciutto a differenza di chi, sotto la pioggia battente, è andato ad urlare la propria rabbia per le strade, per chi crede che, tutto sommato, le cose non stiano andando poi così male, insomma per tutti coloro che da sempre vivono nell’indifferenza, che restino a casa, che rimangano al caldo. Ma quando fra trent’anni il mondo sarà diverso, modellato, cambiato vivranno nel rimpianto, in qualsiasi caso, qualsiasi sia il mondo che si troveranno davanti. Se la società sarà caduta così in basso tanto da indignare anche loro, sarà il rimorso a corrodere i propri ricordi, pronto come sempre a riproporsi ogni qual volta un immagine in bianco e nero di quegli anni passi davanti ai loro occhi.
Se così non dovesse essere, sarà invece l’invidia, lo strazio a provocar loro fastidio, frustrazione. Quel mondo che sembrava andar loro bene, non era poi così perfetto, poteva essere migliore; e quelle marce sotto la pioggia, quelle camminate nel freddo invernale e quelle grida verso il potere forse, con il senno di poi, un senso ce l’avevano.
Allora, anche se non credete nell’effetto di quello che andate a fare, attivatevi, mobilitatevi agitatevi, perché, un giorno, sarà dura, durissima vivere di rimpianti, di occasioni perdute.
In tanti ci accusano di essere gli unici a credere in un ideale, pur conoscendo l’utopia che quell’ideale racchiude. E’ necessario sapere che un ideale, come il Nord, come la Stella Polare, sia irraggiungibile; ma almeno, per quanto mi riguarda, indica la strada da seguire.

Francesco Gentili